Nel dicembre 2021, la Turchia rimase sconvolta dalla notizia che Berfin Özek, una giovane donna originaria della provincia di Hatay, aveva sposato l’uomo che solo due anni prima l’aveva aggredita con dell’acido, sfigurandole il volto e compromettendole la vista.
Il suo nome era Casim Ozan Celtik, ex fidanzato che nel 2019 l’aveva avvicinata per strada urlandole: “Se non sei mia, non sarai di nessun altro”, prima di compiere quel gesto che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. L’attacco fu brutale, la condanna esemplare? Il punto interrogativo lascia intendere molto. Fatto sta che tredici anni e sei mesi di reclusione fu la decisione. Ma il tempo in carcere fu breve! Anche qui il punto esclamativo lascia intendere molto. Complice l’emergenza pandemica da Covid e le misure straordinarie per decongestionare le carceri, Celtik uscì di prigione con largo anticipo.
Da quel momento, cominciò a scrivere lettere, a chiedere perdono, a giurare amore a Berfin.
Lei, nonostante il dolore, le cicatrici e l’opposizione della sua stessa famiglia, lo perdonò. Ritirò la denuncia. Dichiarò pubblicamente di amarlo ancora. E alla fine lo sposò.
Il loro matrimonio, celebrato a porte chiuse, divenne in poco tempo una vicenda nazionale. I giornali titolarono con incredulità, i talk show si accesero di commenti, le piazze digitali si divisero. Alcuni parlarono di sindrome della vittima, altri di amore malato, altri ancora puntarono il dito contro un sistema giudiziario che non era riuscito a proteggere davvero una sopravvissuta. In molti lessero in quel gesto estremo il risultato di una profonda fragilità emotiva, del potere manipolatorio esercitato da alcuni uomini sulle donne che dicono di amare. Eppure, Berfin fu lucida nella sua scelta: non negò l’aggressione, non ridimensionò la sofferenza, ma affermò di sentire ancora un legame che, nonostante tutto, non si era spezzato.
Quel caso portò in superficie una questione più profonda e dolorosa: la violenza di genere non è fatta solo di percosse, minacce o atti brutali. È fatta anche di parole dolci che seguono le botte, di promesse di cambiamento che annebbiano la memoria, di illusioni di salvezza che si confondono con l’abisso. Punire i colpevoli è necessario, ma non basta. La giustizia da sola non può intervenire sul piano intimo, invisibile, dove si annida il legame tossico tra vittima e carnefice. Occorre educare anche chi subisce, soprattutto le ragazze più giovani, ma anche i ragazzi in casi analoghi (qui non facciamo discriminazioni di alcun tipo), a riconoscere la violenza anche quando indossa il volto dell’amore. Non si tratta di colpevolizzare, ma di fornire strumenti. Chi è vittima non dovrebbe mai arrivare a confondere la dipendenza con l’amore, l’abuso con l’affetto, la paura con il destino. Solo attraverso un cambiamento culturale profondo, che affianchi alla punizione la prevenzione, si può sperare di spezzare il ciclo della violenza e impedire che storie come quella di Berfin diventino ancora possibili, per quanto il finale non sia stato l’ennesimo caso di femminicidio.
Daniele Piersanti